Stefano Rodotà

“Antropologia del cavaliere”

Implacabili, si sono via accumulati nel tempo (si approssima il ventennio) i materiali che ora ci presentano a tutto tondo la figura di chi ha dato il tono a questa fase: Silvio Berlusconi. Con una sorta di irresistibile perentorietà sono sempre più manifesti i tratti di una personalità in qualche modo emblematica di come oggi ci si possa affacciare sulla scena pubblica, conquistarla, segnarne i caratteri. Nasce da qui una nuova antropologia, che non è soltanto la somma e l´esibizione di antichi vizi italiani.
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Ma è anche l´effetto di un loro impastarsi con la post-modernità del sistema mediatico, con la cancellazione della distinzione tra sfera pubblica e sfera privata, con la personalizzazione estrema della politica.
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Una volta di più, l´Italia come inquietante laboratorio, luogo di anticipazione e sperimentazione di modelli? È già avvenuto con Mussolini, che aveva sedotto anche le opinioni pubbliche di paesi democratici con la sua grinta. Oggi quelle opinioni pubbliche assistono sbigottite e, ahimè, divertite alla via italiana al “buon governo”. Aveva ragione il vecchio Marx quando diceva che i fatti e i personaggi della storia «si presentano, per così dire, due volte: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa». Solo che si tratta di una farsa che ci attira il dileggio degli stranieri, e fa ridere ben poco gli italiani. E quelle parole, ricordiamolo, erano poste quasi in epigrafe di quel classico delle disavventure della democrazia che è “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”, l´altro Bonaparte, non quel Napoleone al quale Berlusconi ebbe l´ardire di paragonarsi, annunciando per sé un luminoso futuro da legislatore. Qui l´antropologia si tinge di megalomania, quella delle autorappresentazioni come salvatore del mondo, come consigliere indispensabile d´ogni capo di stato o di governo nel quale abbia la ventura d´imbattersi.

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Chi incitava a cogliere nel berlusconismo i tratti dell´innovazione, oggi dovrebbe riflettere non tanto sulle modernizzazioni autoritarie del secolo passato, ma piuttosto sul modo di questa nuovissima modernizzazione all´italiana. Senza dubbio Berlusconi seppe cogliere la Repubblica nel momento della sua massima crisi e si pose come “federatore” delle forze che potevano opporsi al centro sinistra. Ma, indubbio maestro nelle campagne elettorali, non è stato capace di trasformarsi in uomo di governo. Sì che oggi non solo la sua federazione si sbriciola, ma si ritrova con Fini come avversario e Bossi come padrone.

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Il fedele Fedele Confalonieri ne invoca ora costumi morigerati e lo incita a tornare alle origini. Impresa impossibile, perché proprio l´intreccio di troppi vizi privati e di nessuna virtù pubblica è all´origine della sua fortuna. Così, le due “modernizzazioni”, quella craxiana e quella berlusconiana sembrano avere lo stesso esito – una eredità di macerie. Ma se vittima di Craxi fu solo il Partito socialista, oggi rischia d´esserlo la stessa democrazia italiana.

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In realtà, Berlusconi ha portato a compimento quella mutazione genetica intravista da Enrico Berlinguer al tempo del craxismo trionfante, e che ora s´incarna in una nuova prepotente antropologia che tende a trasfondere una autobiografia personale nell´autobiografia di una nazione. Se non ha governato, certamente Berlusconi ha trasformato il paese. Lo ha fatto con l´uso delle sue televisioni che facevano intenzionalmente regredire i telespettatori a fanciulli incolti; che li degradavano non a consumatori, ma a “consumati” dalla pubblicità (come scrive Benjamin Barber); che li consegnavano ad una informazione manipolata. Quando è “sceso in campo”, aveva già pronto il suo elettorato, frutto di una trasformazione in cui già si potevano cogliere i tratti del populismo berlusconiano: l´appello diretto ai cittadini che, convocati in piazza, venivano aizzati contro il nemico o ossessivamente chiamati a rispondere “sì” a qualsiasi domanda; la riduzione delle persone a “carne da sondaggio”; le donne neppure oggetto rispettabile, ma pura carne da guardare (le premonitrici ragazze di Drive In) o di cui impadronirsi. Non l´”amore per le donne”, ma le donne come suo personalissimo “logo”.

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Il tratto possessivo di questa antropologia politica è evidente. Il potere come esercizio di qualsiasi pulsione, con una brama proprietaria che non tollera limiti. La bulimia di volersi impadronire di tutto e lo sbalordimento che lo coglie quando accade che gli si chiede di rispettare qualche regola, di sottoporsi a qualche controllo. Proprietario di tutto. Delle istituzioni. Delle persone che lo circondano, fedeli o traditori. Della stessa verità, che modifica a suo piacimento.
Il senso dello Stato democratico è perduto, al suo posto troviamo lo Stato patrimoniale dove le risorse pubbliche sono nella piena disponibilità del sovrano. Uno Stato personale, dove vige la volontà del principe sciolto dalle leggi. E qui si coglie un altro tratto originario di questa antropologia. Quella dell´imprenditore, per il quale la democrazia si arresta ai cancelli della fabbrica. Quella del capo azienda, che seleziona le segretarie “di bella presenza”.
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Il caso Ruby è la sintesi, l´epitome, la rivelazione definitiva di tutto questo. Senza freni, Berlusconi si rivolge ai corpi dello Stato come se fossero cosa propria. Si fa gestore della vita delle persone incurante d´ogni regola. Si manifesta come rappresentante di una borghesia compra dora, che ritiene di potersi impadronire di tutto ciò che è alla sua portata. È qui la ragione del suo successo, la nuova antropologia dell´italiano che non trova riscontro nelle descrizioni di Giulio Bollati o nell´antitaliano di Giuseppe Prezzolini?
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Ma si fa pure strada la consapevolezza che un limite sia stato varcato, che non si possa più accettare ogni prepotenza. Ecco, dunque, giungere in soccorso quelli che gli costruiscono una giustificatrice genealogia erotica di statisti, evocando Cavour e Kennedy (non mi pare sia stato ricordato il presidente della Repubblica francese Félix Faure, morto in un salone dell´Eliseo vittima delle cure di una antesignana di Monica Lewinski: lo aggiungo io, a buon peso). Altri dicono che in Italia così fan tutti, prevaricando, chiamando prefetti e questori. Attraverso la giustificazione di Berlusconi si intravede una autoassoluzione di massa. E invece no, è tempo di finirla con queste miserabili descrizioni del carattere degli italiani, e cominciare a cercare quello che un tempo si chiamava un “riscatto”.
STEFANO RODOTÀ da La Repubblica del 5 novembre 2010
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