Giuseppe Pelizza da Volpedo



Il Quarto Stato è un celebre dipinto realizzato dal pittore Giuseppe Pelizza da Volpedo nel 1901, fu dipinto da Pellizza tra il 1898 e il 1901 e venne acquistato per pubblica sottoscrizione dal Comune di Milano nel 1920; da allora fa parte delle Civiche Raccolte d'Arte (oggi Galleria d'Arte Moderna presso palazzo Belgiojoso Bonaparte in via Palestro).
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La versione preliminare, invece, è esposta sempre a Milano presso la Pinacoteca di Brera. Opera simbolo del XX secolo, rappresenta lo sciopero dei lavoratori ed è stata eseguita secondo la tecnica divisionista. Non solo raffigura una scena di vita sociale, ma costituisce un simbolo: il popolo, in cui trova spazio paritario anche una donna con il bambino in braccio, sta avanzando verso la luce.
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La composizione del dipinto è bilanciata nelle forme e movimentata nelle luci, rendendo perfettamente l'idea di una massa in movimento. Il dipinto ben rappresenta quei primi anni del novecento percorso dal fermento delle lotte sociali, che di lì a poco cambieranno la storia del mondo e non a caso è stato adottato per simboleggiare le idee del socialismo.

Formazione

Pellizza da Volpedo era figlio di contadini, frequentò la scuola tecnica di Castelnuovo Scrivia dove apprese i primi rudimenti del disegno. Grazie alle conoscenze ottenute con la commercializzazione dei loro prodotti, i Pellizza entrarono in contatto con i fratelli Grubicy che ne promossero l'iscrizione all'Accademia di Belle Arti di Brera dove fu allievo di Francesco Hayez e di Giuseppe Bertini.
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Contemporaneamente ricevette lezione private dal pittore Giuseppe Puricelli e successivamente divenne allievo di Pio Sanquirico. Espose per la prima volta a Brera nel 1885. Terminati gli studi milanesi, Pellizza decise di proseguire il tirocinio formativo, recandosi a Roma, dapprima all'Accademia di San Luca poi alla scuola libera di nudo all'Accademia di Francia a Villa Medici.
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Deluso da Roma, abbandonò la città prima del previsto per recarsi a Firenze, dove frequentò l'Accademia di Belle Arti con Giovanni Fattori come maestro.Alla fine dell'anno accademico ritorna a Volpedo, allo scopo di dedicarsi alla pittura dal vero attraverso lo studio della natura.
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Non ritenendosi soddisfatto della preparazione raggiunta, si recò a Bergamo, dove all'Accademia Carrara seguì i corsi privati di Cesare Tallone. Nel 1889 visitò Parigi in occasione dell'Esposizione universale. Frequentò poi l'Accademia Ligustica a Genova. Al termine di quest’ultimo tirocinio, ritornò al paese natale, dove sposò una contadina del luogo, Teresa Bidone, nel 1892. Da quello stesso anno, cominciò ad aggiungere "da Volpedo" alla propria firma.
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La maturità artistica

Il pittore in questi anni abbandona progressivamente la pittura ad impasto per adottare il divisionismo. Si confrontò così con altri pittori che usavano questa tecnica, soprattutto con Giovanni Segantini, Angelo Morbelli, Vittore Grubicy de Dragon, Plinio Nomellini, Emilio Longoni e, in parte, anche con Gaetano Previati.
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Nel 1891 espose alla Triennale di Milano, facendosi conoscere al grande pubblico. Continuò a esporre in giro per l'Italia (Esposizione Italo-Colombiana di Genova 1892, di nuovo Milano 1894). Tornò a Firenze nel 1893, vi frequentò l'Istituto di Studi Superiori, visitò poi Roma e Napoli. Nel 1900 espose a Parigi
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Lo specchio della vita
Nel 1901, portò a termine Il Quarto Stato, a cui aveva dedicato dieci anni di studi e fatica. L'opera, esposta l'anno successivo alla Quadriennale di Torino, non ottenne il riconoscimento sperato, anzi scatenò polemiche e sconcerto presso molti dei suoi amici. Deluso, finì per abbandonare i rapporti con molti letterati e artisti dell'epoca, con i quali già da tempo intratteneva fitti rapporti epistolari.
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Morto nel frattempo Segantini, nel 1904 Pellizza intraprese un viaggio in Engandina, luogo segantiano, al fine di riflettere maggiormente sulle motivazioni e sull'ispirazione del pittore da lui considerato suo maestro. Nel 1906, grazie alla sempre maggiore circolazione delle sue opere in esposizioni nazionali e internazionali, fu chiamato a Roma, dove riuscì a vendere un'opera perfino allo Stato: ‘’Il sole’’, destinato alla Galleria di Arte Moderna.
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Sembrava l'inizio di un nuovo periodo favorevole, in cui finalmente l'ambiente artistico e letterario riconosceva i temi delle sue opere. Ma l'improvvisa morte della moglie, nel 1907, gettò l'artista in una profonda crisi depressiva. Il 14 giugno dello stesso anno, non ancora quarantenne, si suicidò impiccandosi nel suo studio di Volpedo.
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Opere

Il quarto stato (Museo del Novecento di Milano)

Fiumana (Accademia di Brera di Milano)
Ambasciatori della fame (Civica Galleria d'Arte Moderna di Milano)
Il sole (Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma)
L'amore nella vita (Collezione privata a Lonedo)
Il sorgere del sole (Collezione privata a Torino)
Panni al sole (Collezione privata a Milano)
Passeggiata amorosa (Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno)
Prato fiorito (Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma)
Statua a Villa Borghese (Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Venezia)
Lo specchio della vita (E ciò che l'una fa e l'altre fanno) (Museo civico di Torino)
L'annegato (Pinacoteca Civica di Alessandria)
Idillio primaverile (Collezione privata)
Il Morticino (Museo d'Orsay di Parigi)
Sul Fienile (Collezione Privata)

Musei

Elenco dei musei che contengono opere dell'artista:
Casa-studio di Giuseppe Pellizza da Volpedo a Volpedo (AL)
Fondazione Ada e Antonio Giacomini di Motta di Livenza (TV)
Pinacoteca Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona


León Trotski

Luces y sombras de Trotski 

El historiador británico Robert Service se sumerge en la vida de uno de los dirigentes bolcheviques más destacados en «Trotski. Una biografía»

Efe, Barcelona
27.12.2010

"Trotski. Una biografía" es la última obra del historiador británico Robert Service, especialista en la Revolución Rusa, que esta vez se ha sumergido en la vida de uno de los más destacados dirigentes bolcheviques, en busca de sus luces pero también de sus sombras.
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Su trágico final -el comunista catalán Ramon Mercader, agente enviado por Stalin, le clavó en 1940 un piolet en el cráneo en su exilio en México- convirtió a León Trotski en un mártir, en una figura que salía casi indemne del juicio de la historia. 
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Respetado por muchos anticomunistas por haber proporcionado numerosos argumentos contra el estalinismo, idealizado por muchos marxistas por encarnar el auténtico ideal revolucionario que Stalin supuestamente había traicionado, Trotski fue y sigue siendo hoy un personaje más admirado que repudiado.
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Al escribir esta biografía, de 735 páginas y publicada por Ediciones B, Service se propone revisar con espíritu crítico la figura de Trotski, sin la indulgencia de las biografías precedentes, escritas por él mismo o por fieles seguidores de su pensamiento.
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Service reconoce en Trotski infinidad de virtudes, "cualidades excepcionales como orador, organizador y líder" y como ensayista o periodista, un intelectual revolucionario de gran talento.
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Las tinieblas del personaje
Pero quizá lo más llamativo de esta obra, muy documentada, es su interés por "desenterrar lo que hay oculto en su vida", escudriñar en cada detalle de su pasado, remontándose hasta su infancia, y explorar también las tinieblas del personaje.
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Service dice que detecta en Trotski una tendencia a sobrevalorar su importancia personal, una indisimulada arrogancia, un evidente egocentrismo que le llevaban a menudo a despegar sus pies de la realidad e infravalorar a sus adversarios, como le ocurrió con Stalin, que finalmente le ganó la partida y, a la muerte de Lenin, se hizo con el control del Partido y, a la postre, del Estado.
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Pero quizá la conclusión más controvertida que saca Service es que, aunque los crímenes de Stalin casi no tienen parangón en la historia, "Trotski tampoco era un ángel" y, de hecho, dice, recurrió igualmente al terror en sus años al frente del Ejército Rojo. Pese al convencimiento de los trotskistas de que el devenir de la URSS habría sido otro distinto si Trotski le hubiese ganado a Stalin la partida en su encarnizada lucha por el poder, Service cree que "gobernara quien gobernara la URSS, tenía la necesidad de recurrir a métodos autoritarios para conservar el poder comunista".
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Al ser asesinado se convirtió en un mártir político y, a partir de ahí, muchos autores que de otro modo lo hubieran tratado con escepticismo le otorgaron el beneficio de la duda. También había algo más: Trotski les había proporcionado argumentos para desacreditar la reputación de Stalin y sus secuaces, y, para algunos escritores, lo más sencillo es adoptar como propias ideas ajenas sin reflexión mediante. El caso es que Trotski se equivocó en muchos aspectos cruciales.
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"Revolucionario, teórico, escritor de gran calado, mujeriego, icono de la revolución, judío antisemita, filósofo de la vida cotidiana… Robert Service ha investigado en los archivos para brindarnos una versión novedosa de la vida de Trotski que arroja mucha luz sobre el personaje y rebate la imagen que se tenía de esta figura esencial del siglo XX.

León Trotski

Selected works

The Real Situation in Russia, Max Eastman, tr. New York: Harcourt, Brace and Company, 1928


Gilberto Valdés Gutiérrez

La Pyramide du Système Capitaliste (Industrial Worker")

Globalidad, globalización y globalismo

Concepto

Globalidad:Por globalidad se entiende la idea simple de que hace ya bastante tiempo vivimos en una sociedad mundial. Globalización: Podemos llamar globalización como tal a la globalidad o mundialización de la segunda modernidad en la que los Estados nacionales soberanos, al imbricarse de manera múltiple con actores transnacionales ven desdibujada su soberanía.
Globalismo: El globalismo puede ser considerado como la ideología hegemónica del gran capital transnacional en la globalización.

La globalización actual se corresponde con el capitalismo monopolista transnacional, determina un cambio de época. Entender cabalmente su lógica implica comprender su pluridimensionalidad. En este sentido cabe distinguirla de la globalidad (o mundialización) y el globalismo[1]. No se trata de un juego semántico, sino de acudir a tres conceptos explicativos que nos permitirán distinguir procesos que se confunden cuando los identificamos con un solo término
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Globalidad 

Por globalidad se entiende la idea simple de que hace ya bastante tiempo vivimos en una sociedad mundial. La palabra globalidad nos dice que el mundo es un globo, y que lo es cada vez más. Desde hace tiempo se sabe que el mundo es redondo. Copérnico lo sabía y Colón sacó conclusiones que transformaron esta tierra. Por globalidad se entiende entonces la situación de vivir en una sociedad mundial. Globalidad significa que la tesis de los espacios cerrados es ficticia, por lo que no hay ningún país o grupo que pueda vivir al margen de los demás. 

En resumen, la globalidad como relacionamiento social planetario, que se articula con distinto ritmo e intensidad en los distintos niveles (ecológico, económico, político, técnico, cultural) comienza a configurarse como proceso de expansión y transformación a partir de los primeros viajes transoceánicos que vehiculizan la transición al capitalismo. De ahí que la consolidación de la globalidad coincide de hecho con la consolidación del capitalismo, sistema de producción y de reproducción de la vida humana, que por la compulsividad expansiva que lo distingue de sistemas anteriores, se caracteriza al mismo tiempo por la apertura y la totalización (apertura porque siempre necesita de nuevos espacios y totalización porque los nuevos espacios son inevitablemente subsumidos en la lógica del sistema, de manera tal que la totalización realizada impulsa nuevamente a la apertura). 
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La globalidad durante la primera modernización (Siglo XIX y el «corto» Siglo XX) que incluye la fase industrial, se expresó en el monopolio del Estado en la articulación del sentido de la vida social y cultural, del mercado interno y del mercado mundial. En consecuencia, esta globalidad representó, dada la mediación política d.el estado-nación, el ascenso de los proyectos nacionales.

Internamente, basados en una lógica de inversión productiva, en la que se impuso al interior de los países el llamado consenso socialdemócrata entre el trabajo y el capital y en lo inter-nacional se configuró el sistema interestatal moderno (los estados-naciones y sus organizaciones mundiales como la ONU, las que garantizan la normatividad internacional en la regulación del comportamiento inter-estatal, aunque con claras asimetrías). 
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En esta primera globalidad, especialmente a partir del estado de bienestar keynesiano, el capital y el trabajo mantuvieron compromisos mutuos. La lógica del capital y la lógica de la fuerza de trabajo pudieron implicarse en una lógica incluyente de relativo mutuo beneficio en que la confrontación no dejaba de ser el camino para los acuerdos. El espacio en que ese compromiso tuvo lugar fue el del Estado-nación: implicó territorialidad del trabajo y en buena medida territorialidad del capital, ambos articulados en función de una fuerte territorialidad del poder político, que desarrolló una efectiva función de gobierno sobre las relaciones entre el trabajo y el capital. 
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Puede decirse que desde los años 50 hasta la década del 70, las funciones de acumulación y legitimación del Estado capitalista consolidaron un consenso social entre las clases, favorecido por la coexistencia de una elevada tasa de beneficio del capital y el disfrute por los trabajadores de sostenidos aumentos salariales reales. El pleno empleo y la expansión del crecimiento económico estaban garantizados por la alta rentabilidad del capital y una acumulación acelerada. Los gastos sociales parecían poder ser financiados permanentemente por un producto nacional bruto en expansión. Sobre esta plataforma toman auge las teorías posindustrialistas y el mito del fin de las ideologías. 
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Globalización 

Podemos llamar globalización como tal a la globalidad o mundialización de la segunda modernidad[2], en la que los Estados nacionales soberanos, al imbricarse de manera múltiple con actores transnacionales ven desdibujada su soberanía. Esta globalidad de la segunda modernización se identifica con la fase expansiva del capital financiero. 
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A diferencia de la globalidad anterior, la tendencia que se impuso fue una ruptura del compromiso entre el trabajo y el capital, desde el capital. «Este capitalismo de reformas –afirma Franz Hinkelammert— había puesto junto a la mano invisible de Adam Smith la mano visible de Lord Keynes. Ahora el capitalismo retiró la mano de Keynes y se volvió a presentar como el capitalismo salvaje que había sido».[3] Al dejar sin efecto su compromiso con la fuerza de trabajo, que implicaba asegurar condiciones humanas de reproducción en las que la actividad en la producción podía no ser vivida como pura explotación, genera la situación y amenaza de la flexibilización, la precarización y la exclusión. 
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Las empresas multinacionales o transnacionales son la expresión concreta del actual proceso de mundialización y como tales constituyen los agentes activos del proceso. Las grandes transnacionales disponen hoy de redes internas que les permiten administrar las relaciones entre producción, investigación, innovación y comercialización en escala planetaria y en su seno se producen flujos de bienes, servicios e información sin tener en cuenta las fronteras nacionales. Al desarrollar sus actividades en cualquier país, optan por aquellos donde los gastos de funcionamiento sean más bajos. La acción de dichas empresas da lugar a importantes modificaciones de tipo estructural en el funcionamiento del capitalismo. Sus exigencias son: ajustes estructurales, desregulación, desempleo masivo, redistribución de la renta a favor de los ricos, privatización de los bienes públicos. 
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Esto significa que se ha generalizado la propiedad internacional de las empresas: deja de ser exclusivamente de capitalistas de un mismo origen nacional y se funde en un solo capital, en el cual el origen nacional de sus propietarios pierde sentido. También se ha hecho mundial la rentabilidad y la valorización del capital. En otras palabras: los capitales se internacionalizaron ayer (en un cambio claramente cuantitativo) para transnacionalizarse hoy (en un cambio fundamentalmente cualitativo). Esta nueva cualidad está dada, entre otros aspectos, por el hecho de que las antiguas empresas internacionales de compra-venta se convierten en empresas de producción mundial, favorecida por los avances tecnológicos en las comunicaciones, la información y el transporte. 
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El Estado-nación se debilita por las agresiones de las gigantescas empresas transnacionales, siendo estas últimas la objetivación en la práctica de ese fenómeno abstracto llamado transnacionalización del capitalismo. Estas empresas no son otra cosa que la transformación cualitativa de los viejos monopolios del siglo pasado, que tuvieron su culminación alrededor de la Primera Guerra Mundial. Las empresas transnacionales actuales -conformadas desde la segunda postguerra- cumplen con su naturaleza de máximos monopolios: coartan la plena libertad de comercio mundial y entorpecen el libre juego de las fuerzas del mercado. 
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Las empresas privadas de América Latina y del Sur han sido cada vez más incorporadas e insertas en forma dependiente a la lógica del capital central. La empresa nacional, tanto privada como estatal, queda cada vez más marginada y en posición asimétrica frente a la empresa transnacional, crecientemente aislada de la lógica del mercado doméstico y de la lógica de la sobrevivencia de las grandes mayorías pauperizadas. 
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Globalismo 

El globalismo puede ser considerado como la ideología hegemónica del gran capital transnacional en la globalización. Reduce la pluridimensionalidad de la globalización a una sola dimensión: la económica. Es la concepción según la cual el mercado mundial desaloja o sustituye el quehacer político. 
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En síntesis, la globalización es un proceso objetivo[4], no un mero concepto, asentado en un salto cualitativo en el desarrollo de las fuerzas productivas que se opera a partir de las modernas tecnologías. Es oportuno recordar que a cada nivel de desarrollo de las fuerzas productivas dentro del capitalismo corresponde un tipo de expansión del capital en la búsqueda del «mercado mundial» y normalmente va asociado a una forma concreta de imperialismo. 
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La historia nos ha enseñado que las formas y extensión de la dominación imperialista han sido unas en el pasado y son otras hoy en día. El imperialismo «clásico» nunca llegó a dominar todo el planeta, el imperialismo actual impregna todas las esferas de la vida material y cultural del orbe, aun aquellas que margina. 
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La globalización se ha constituido en una transformación sustantiva del capitalismo y ha desarrollado una nueva relación de interdependencia más allá de los estados nacionales. El punto de vista de Marx sobre un mercado mundial, y su noción que la necesidad de un mercado en constante expansión para sus productos persigue a la burguesía sobre toda la superficie del globo, aparece enfatizado en esta «teoría» de la globalización.
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No es contra la globalización que debemos encarar la lucha sino contra el modo de apropiación de los productos del trabajo social, la explotación o la exclusión (caras de una misma moneda) y la consecuente alienación que opera en todos los ámbitos de la vida material y espiritual de los pueblos y las personas. 
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Frente a este cuadro podemos afirmar la necesidad de cambiar el rumbo de la globalización, teniendo en cuenta, en primera instancia, la necesidad de una democratización en la globalización, como una alternativa posible y deseable al totalitarismo del mercado que la misma ha desplegado planetariamente en el proceso de su totalización imperialista. 
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Resumiendo este punto, abogamos por priorizar el debate entre quienes pretendemos dar otro curso a la historia, sacándolo de la agenda que impulsan las transnacionales. Al respecto señalamos la pertinencia de colocar el tema sobre la idea de la apropiación de la globalización por el pueblo. «Algún día no nos separán orígenes étnicos, ni chovinismos nacionales ni fronteras, ni ríos ni mares, ni océanos ni distancias –pronostica Fidel Castro-. Seremos, por encima de todo, seres humanos llamados a vivir inevitablemente en un mundo globalizado, pero verdaderamente justo, solidario y pacífico». [5] 

Notas y referencias 
1 Cf. Ulrich Brek: ¿Qué es la globalización? Falacias del globalismo, respuestas a la globalización, Piados, Barcelona, 1998 y Yamandú Acosta: Democratización en la globalización, Conferencia ofrecida en el Encuentro «Filosofía Latinoamericana, Globalización y Democracia», organizado por el departamento de Filosofía de la Práctica y el Centro de Estudios Interdisciplinarios Latinoamericanos, Facultad de Humanidades y Ciencias de la Educación, Montevideo, 28 de septiembre al 1 de octubre de 1999, meca. 
2  Silvio Baró plantea que «con el ascenso del capitalismo de su etapa monopolista a imperialismo, nos encontramos con tres momentos de internacionalización y de expansión de las relaciones capitalistas de producción. Estos momentos los denominé: internacionalización, transnacionalización y globalización». (Silvio Baró: «Globalización: contradicciones, implicaciones y amenazas», Globalización: Desafíos en el mundo de hoy, Análisis de coyuntura No. 2, Asociación por la Unidad de Nuestra América, La Habana, s/f.). 
3. Franz J. Hinkelammert: Determinismo, Caos, Sujeto. El mapa del emperador, DEI, San José, 1996, p. 116. 
4. Sobre la objetividad de este proceso, Fidel Castro precisa: «Tengo convicciones profundas sobre este desarrollo que lleva el mundo, sobre esa globalización de que hemos hablado y a la cual hemos bautizado; para dar una idea nada más y para sintetizar en una frase lo que nosotros calificamos como globalización neoliberal, que no niega el proceso de globalización, que es inevitable, que es inexorable, y sobre lo cual hay que estudiar mucho.» (Discurso en la clausura del evento Economía 98», Periódico Granma, miércoles, 8 de julio de 1998, p.3). El subrayado es nuestro. 
5. Fidel Castro Ruz: «Discurso en la XII Cumbre del Movimiento de Países No Alineados», Periódico Granma, 3 de septiembre de 1998.

Fuente 
Gilberto Valdés Gutiérrez: El sistema de dominación múltiple. Hacia un nuevo paradigma emancipatorio en América Latina,
Fondo Instituto de Filosofía, 2002. 

Jacques Le Goff


"Seguimos viviendo en la Edad Media"

Fue una etapa brillante, dice el historiador

 

Por Luisa Corradini

12.10.2005

PARIS.– Discípulos y colegas llaman al francés Jacques Le Goff “el ogro historiador”. Es una referencia al desaparecido Marc Bloch, cofundador de l’Ecole des Annales, quien afirmaba que un buen historiador “se parece al ogro de la leyenda: allí donde huele carne humana, sabe que está su presa”.
De un ogro, Jacques Le Goff tiene la estatura y el apetito. También tiene una insaciable curiosidad que lo llevó a transformarse en una referencia mundial sobre la historia de la Edad Media, período al cual el hombre contemporáneo le debe muchas de sus conquistas, dice.
A los 82 años, Jacques Le Goff sigue trabajando, a pesar de la profunda tristeza que le provocó la reciente muerte de su esposa – después de casi 60 años de vida en común – y de una caída que desde 2003 lo mantiene recluido en su departamento de París.
Con cualquiera de sus libros  – tantos que podrían formar una biblioteca – todo lector se siente inteligente y erudito.
Aún más que sus condiscípulos George Duby, Emmanuel Le Roy Ladurie y François Furet, Le Goff recurrió a todas las disciplinas para estudiar la vida cotidiana, las mentalidades y los sueños de la Edad Media: antropología, etnología, arqueología, psicología? Sus obras mezclan conocimiento y perspectivas. Con ellas es posible introducirse en un medioevo fascinante, donde se estudiaba y se enseñaba a Aristóteles, Averroes y Avicenas, las ciudades comenzaban a forjarse una idea de la belleza y los burgueses financiaban catedrales que inspirarían a Gropius, Gaudi y Niemeyer. En esa Edad Media masculina, la mujer era respetada, las prostitutas, bien tratadas y hasta desposadas, y solía suceder que las jovencitas aprendieran a leer y a escribir.
-Los historiadores no consiguen ponerse de acuerdo sobre la cronología de la Edad Media. ¿Cuál es la correcta, a su juicio?
-Es verdad que no todos los historiadores coinciden en esa cronología. Para mí, la primera de sus etapas comienza en el siglo IV y termina en el VIII. Es el período de las invasiones, de la instalación de los bárbaros en el antiguo imperio romano occidental y de la expansión del cristianismo. Déjeme subrayar que Europa debe su cultura a la Iglesia. Sobre todo, a San Jerónimo, cuya traducción latina de la Biblia se impuso durante todo el medioevo, y a San Agustín, el más grande de los profesores de la época.
-Usted, gran anticlerical, jamás deja de destacar el papel de la Iglesia en los mayores logros de la Edad Media.
-¡Pero no es necesario ser un ferviente creyente para hablar bien de la Iglesia! También soy un convencido partidario del laicismo: principio admirable, establecido por el mismo Jesús cuando dijo: "Al César lo que es del César y a Dios lo que es de Dios". Pero, volviendo a la cronología, la segunda etapa está delimitada por el período carolingio, del siglo VIII al X.
-El imperio de Carlomagno fue, para muchos, el primer intento verdadero de construcción europea?
-Falso. En realidad se trató del primer intento abortado de construcción europea. Un intento pervertido por la visión "nacionalista" de Carlomagno y su patriotismo franco. En vez de mirar al futuro, Carlomagno miraba hacia atrás, hacia el imperio romano. La Europa de Carlos V, de Napoleón y de Hitler fueron también proyectos antieuropeos. Ninguno de ellos buscaba la unidad continental en la diversidad. Todos perseguían un sueño imperial.
-Usted escribió que a partir del año 1000 apareció una Europa soñada y potencial, en la cual el mundo monástico tendría un papel social y cultural fundamental.
-Así es. Una nueva Europa llena de promesas, con la entrada del mundo eslavo en la cristiandad y la recuperación de la península hispánica, que estaba en manos de los musulmanes. Al desarrollo económico, factor de progreso, se asoció una intensa energía colectiva, religiosa y psicológica, así como un importante movimiento de paz promovido por la Iglesia. El mundo feudal occidental se puso en marcha entre los siglos XI y XII. Esa fue la Europa de la tierra, de la agricultura y de los campesinos. La vida se organizaba entre la señoría, el pueblo y la parroquia. Pero también entraron en escena las órdenes religiosas militares, debido a las Cruzadas y a las peregrinaciones que transformarían la imagen de la cristiandad. Entre los siglos XIII y XV, fue el turno de una Europa suntuosa de las universidades y las catedrales góticas.
-En todo caso, para usted, la Edad Media fue todo lo contrario del oscurantismo.
-Aquellos que hablan de oscurantismo no han comprendido nada. Esa es una idea falsa, legado del Siglo de las Luces y de los románticos. La era moderna nació en el medioevo. El combate por la laicidad del siglo XIX contribuyó a legitimar la idea de que la Edad Media, profundamente religiosa, era oscurantista. La verdad es que la Edad Media fue una época de fe, apasionada por la búsqueda de la razón. A ella le debemos el Estado, la nación, la ciudad, la universidad, los derechos del individuo, la emancipación de la mujer, la conciencia, la organización de la guerra, el molino, la máquina, la brújula, la hora, el libro, el purgatorio, la confesión, el tenedor, las sábanas y hasta la Revolución Francesa.
-Pero la Revolución Francesa fue en 1789. ¿No se considera que la Edad Media terminó con la llegada del Renacimiento, en el siglo XV?
-Para comprender verdaderamente el pasado, es necesario tener en cuenta que los hechos son sólo la espuma de la historia. Lo importante son los procesos subyacentes. Para mí, el humanismo no esperó la llegada del Renacimiento: ya existía en la Edad Media. Como existían también los principios que generaron la Revolución Francesa. Y hasta la Revolución Industrial. La verdad es que nuestras sociedades hiperdesarrolladas siguen estando profundamente influidas por estructuras nacidas en el medioevo.
-¿Por ejemplo?
-Tomemos el ejemplo de la conciencia. En 1215, el IV Concilio de Latran tomó decisiones que marcaron para siempre la evolución de nuestras sociedades. Entre ellas, instituyó la confesión obligatoria. Lo que después se llamó "examen de conciencia" contribuyó a liberar la palabra, pero también la ficción. Hasta ese momento, los parroquianos se reunían y confesaban públicamente que habían robado, matado o engañado a su mujer. Ahora se trataba de contar su vida espiritual, en secreto, a un sacerdote. Tanto para mí como para el filósofo Michel Foucault, ese momento fue esencial para el desarrollo de la introspección, que es una característica de la sociedad occidental. No hace falta que le haga notar que bastaría con hacer girar un confesionario para que se transformara en el diván de un psicoanalista.
-Usted habla de emancipación de la mujer en la Edad Media. ¿Pero aquella no fue una época de profunda misoginia?
-Eso dicen y, naturalmente, hay que poner las cosas en perspectiva. Yo sostengo, sin embargo, que se trató de una época de promoción de la mujer. Un ejemplo bastaría: el culto a la Virgen María. ¿Qué es lo que el cristianismo medieval inventó, entre otras cosas? La Santísima Trinidad, que, como los Tres Mosqueteros, eran, en realidad, cuatro: Dios, Jesús, el Espíritu Santo y María, madre de Dios. Convengamos en que no se puede pedir mucho más a una religión que fue capaz de dar estatus divino a una mujer. Pero también está el matrimonio: en 1215, la Iglesia exigió el consentimiento de la mujer, así como el del hombre, para unirlos en matrimonio. El hombre medieval no era tan misógino como se pretende.
-La invención del purgatorio, a mediados del siglo XII, parece haber sido también uno de los momentos clave para el desarrollo de nuestras sociedades actuales.
-Así es. Curiosamente, lo que comenzó como un intento suplementario de control por parte de la Iglesia, concluyó permitiendo el desarrollo de la economía occidental tal como la practicamos en nuestros días.
-¿Cómo es eso?
-La invención del purgatorio se produjo en el momento de transición entre una Edad Media relativamente libre y un medioevo extremadamente rígido. En el siglo XII comenzó a instalarse la noción de cristiandad, que permitiría avanzar, pero también excluir y perseguir: a los herejes, los judíos, los homosexuales, los leprosos, los locos... Pero, como siempre sucedió en la Edad Media, cada vez que se hacían sentir las rigideces de la época los hombres conseguían inventar la forma de atenuarlas. Así, la invención de un espacio intermedio entre el cielo y el infierno, entre la condena eterna y la salvación, permitió a Occidente salir del maniqueísmo del bien y del mal absolutos. Podríamos decir también que, inventando el purgatorio, los hombres medievales se apoderaron del más allá, que hasta entonces estaba exclusivamente en manos de Dios. Ahora era la Iglesia la que decía qué categorías de pecadores podrían pagar sus culpas en ese espacio intermedio y lograr la salvación. Una toma de poder que, por ejemplo, permitiría a los usureros escapar al infierno y hacer avanzar la economía. También serían salvados de este modo los fornicadores.
-Pero hasta la aparición del sistema bancario reglamentado, en el siglo XVIII, tanto la Iglesia como las monarquías sobrevivieron gracias a los usureros. ¿Por qué condenarlos al infierno?
-Porque así lo establecían las escrituras, como en la mayoría de las religiones. En el universo cristiano medieval, la usura era un doble robo: contra el prójimo, a quien el usurero despojaba de parte de su bien, pero, sobre todo, contra Dios, porque el interés de un préstamo sólo es posible a través del tiempo. Y como el tiempo en el medioevo sólo pertenecía a Dios, comprar tiempo era robarle a Dios. Sin embargo, el usurero fue indispensable a partir del siglo XI, con el renacimiento de la economía monetaria. La sed de dinero era tan grande que hubo que recurrir a los prestamistas. Entonces la escolástica logró hallarles justificaciones. Surgió así el concepto de mecenas. También se aceptó que prestar dinero era un riesgo y que era normal que engendrara un beneficio. En todo caso, y sólo para los prestamistas considerados "de buena fe", el purgatorio resultó un buen negocio.
-La Edad Media también inventó el concepto de guerra justa, vigente hasta nuestros días, como lo demostraron los debates en la ONU sobre la guerra en Irak. Curioso, ya que el cristianismo es portador de un ideal de paz. Hasta se podría decir que es antimilitarista.
-Es verdad. Ordenándole a Pedro que enfundara su espada, Cristo dijo: "Quien a hierro mate, a hierro morirá". Los primeros grandes teóricos cristianos latinos eran pacifistas. Pero todo cambió a partir del siglo IV, cuando el cristianismo se transformó en religión de Estado.
-En otras palabras, los cristianos se vieron obligados a cristianizar la guerra.
-En esa tarea tendrá un papel fundamental San Agustín, el gran pedagogo cristiano. Para él, la guerra es una consecuencia del pecado original. Como éste existirá hasta el fin de los tiempos, la guerra también existirá por siempre. San Agustín propuso, entonces, imponer límites a esa guerra. En vez de erradicarla, decidió confinarla, someterla a reglas. La primera de esas reglas es que sólo es legítima la guerra declarada por una persona autorizada por Dios. En la Edad Media, era el príncipe. Hoy es el Estado, el poder público. La segunda regla es que una guerra es justa sólo cuando no persigue la conquista. En otras palabras: las armas sólo se toman en defensa propia o para reparar una injusticia. Esas reglas siguen perfectamente vigentes en nuestros días.
-¿Se podría decir que el hombre medieval trataba de preservar la cristiandad de todo aquello que amenazaba su equilibrio?
-Constantemente. Déjeme evocar como ejemplo el que para mí fue el aspecto más negativo de la época: la condena absoluta del placer sexual, simbolizado por el llamado "pecado de la carne". La alta Edad Media asumió las prohibiciones del Antiguo Testamento. Desde entonces, el cuerpo fue diabolizado, a pesar de algunas excepciones, como Santo Tomás de Aquino, para quien era lícito el placer en el acto amoroso. Frente a la opresión moral, la sociedad medieval reaccionó con la risa, la comedia y la ironía. El universo medieval fue un mundo de música y de cantos, promovió el órgano e inventó la polifonía.
-Hace un momento hizo referencia a los fornicadores que tuvieron un lugar en el purgatorio. ¿Cómo fue esto posible en una época de tanta represión sexual?
-Hay una anécdota que ilustra perfectamente la dualidad medieval. El rey Luis IX de Francia, que después sería canonizado como San Luis, tenía una vitalidad sexual desbordante. En los períodos en que las relaciones carnales eran lícitas (fuera de las fiestas religiosas), el monarca no se contentaba con reunirse con su esposa por las noches. También lo hacía durante el día. Esto irritaba mucho a su madre, Blanca de Castilla, que en cuanto se enteraba de que su hijo estaba con la reina intentaba introducirse en la habitación para poner fin a sus efusiones. Luis IX decidió entonces poner un guardián ante su puerta, que debía prevenirlo y darle tiempo de disimular su desenfreno. Ese hombre lleno de ardor tuvo once hijos y cuando partió a la Cruzada, en 1248, llevó a su mujer, a fin de no privarse de sus placeres sexuales. ¡No imaginará usted que la Iglesia podía enviar a San Luis a arder en el fuego eterno del infierno!
-¿También podríamos decir que la Edad Media inventó el concepto de Occidente?
-La palabra "Occidente" no me gusta. Pronunciada por los occidentales, tiene un contenido de soberbia para el resto del planeta.
-Pero entonces, ¿cómo definir, por ejemplo, a América, heredera de Europa?
-América ha dejado de ser la heredera de Europa. Lo fue hasta finales de la Segunda Guerra Mundial, cuando tanto Estados Unidos como el resto del continente dejaron de tener al hombre como centro de sus preocupaciones.
-Usted es un apasionado estudioso de la imaginación colectiva de la Edad Media. ¿Por qué eso es tan importante?
-Felizmente, las nuevas generaciones de historiadores siguen cada vez más esa tendencia. La imaginación colectiva se construye y se nutre de leyendas, de mitos. Se la podría definir como el sistema de sueños de una sociedad, de una civilización. Un sistema capaz de transformar la realidad en apasionadas imágenes mentales. Y esto es fundamental para comprender los procesos históricos. La historia se hace con hombres de carne y hueso, con sus sueños, sus creencias y sus necesidades cotidianas.
-¿Y cómo era esa imaginación medieval?
-Estaba constituida por un mundo sin fronteras entre lo real y lo fantástico, entre lo natural y lo sobrenatural, entre lo terrenal y lo celestial, entre la realidad y la fantasía. Si bien los cimientos medievales de Europa subsistieron, sus héroes y leyendas fueron olvidados durante el Siglo de las Luces. El romanticismo los resucitó, cantando las leyendas doradas de la Edad Media. Hoy asistimos a un segundo renacimiento gracias a dos inventos del siglo XX: el cine y las historietas. El medioevo vuelve a estar de moda con "Harry Potter", "La guerra de las galaxias" y los videojuegos. En realidad, la Edad Media tiene una gran deuda con Hollywood. Y viceversa. Pensé alguna vez que provocaría un escándalo afirmando que el medioevo se había prolongado hasta la Revolución Industrial. La verdad es que ha llegado hasta nuestros días.
-¿Se podría decir entonces que seguimos viviendo en la Edad Media?
-Sí. Pero esto quiere decir todo lo contrario de que estamos en una época de hordas salvajes, ignorantes e incultas, sumergidos en pleno oscurantismo. Estamos en la Edad Media porque de ella heredamos la ciudad, las universidades, nuestros sistemas de pensamiento, el amor por el conocimiento y la cortesía. Aunque, pensándolo bien, esto último bien podría estar en vías de extinción.